Assunte per quota di legge, messe nelle condizioni di avere un posto di lavoro ma in molti casi relegate a ruoli che non valorizzano il potenziale, segregate in predeterminate funzioni organizzative: troppo spesso le persone sono definite ancora dalla loro disabilità e non dal loro valore reale. Perché?
Quando le persone con disabilità sono assunte da un’azienda sono spesso contrapposte a una multa: se le imprese assumono queste persone non pagano infatti la multa che la legge prevede per le organizzazioni che omettono di rispettare gli obblighi di legge. Conseguentemente le imprese percepiscono spesso l’assunzione di queste persone come un vincolo e non come un’opportunità. Altre aziende poi assumono le persone con disabilità per raccontare questo loro impegno nel bilancio di sostenibilità e farsi belle. Oltre queste prime osservazioni il tema è culturale. Il management spesso non ha il coraggio di guardare oltre puntando sui talenti delle persone: vede prima la disabilità che il potenziale professionale dell’individuo e per questo rischia di perdere opportunità e capacità non indifferenti. La certificazione ISO:3415 afferma che un’azienda che intraprende il percorso dell’inclusione deve avere coraggio perché nel suo percorso di trasformazione incontrerà lungo il percorso una grande resistenza al cambiamento. È la stessa resistenza che ancora impedisce alle persone con disabilità di essere considerate e gestite come risorse e non come oneri.
Quali sono i passi che un’impresa deve agire per superare una discriminazione di fatto consapevole o inconsapevole?
Prima di tutto un’impresa deve educarsi o essere educata ad accogliere le persone con disabilità. Perché le assunzioni delle persone con disabilità abbiano successo devono essere preparate. È necessario formare il vertice dell’azienda che deve essere totalmente allineato alla strategia di inclusione, diventandone promotore. Il vertice deve aderire senza se e senza ma al progetto. Se il top management non sentirà la strategia di inclusione come sua il programma fallirà. In fondo questo è sempre vero per ogni strategia aziendale, dalla sostenibilità al cambiamento operativo. Dopo aver formato il vertice è necessario formare tutte le persone dell’azienda. Solo quando l’azienda è pronta ad assumere gli individui con disabilità sulla base dei loro talenti queste persone potranno essere assunte con successo ed essere quindi inserite nei processi anche attraverso gli accomodamenti ragionevoli.
Quali sono i momenti quotidiani della verità di un management inclusivo rispetto alle persone con disabilità?
Il primo livello è relazionale. In ogni momento della giornata il management quando parla al team deve parlare a tutte le persone allo stesso modo, persona con disabilità compresa. Anche se il management vuole proteggere questo individuo perché una determinata decisione potrebbe coinvolgerlo troppo emotivamente, deve trattarlo in modo uguale agli altri. Questo è il desiderio delle persone con disabilità. Non vogliono necessariamente dei privilegi, desiderano essere parte della squadra con uguali oneri e onori. Sono certamente sostenute da accomodamenti ragionevoli i quali servono per far funzionare il processo che al suo interno vede attiva una persona con disabilità. Ma l’accomodamento non è un privilegio: se miglioro un determinato processo per la persona con disabilità genero spesso un vantaggio per tutta la comunità. In questo senso la presenza di una persona con disabilità diventa un’opportunità.
Quali sono i momenti quotidiani della verità per una persona con disabilità che voglia liberarsi del suo ruolo sociale predefinito per affermare un ruolo proprio autentico di “soggetto capace di realizzazione”?
Secondo me la persona con disabilità non deve considerarsi disabile. Sul piano dell’atteggiamento mentale l’individuo deve scegliere dove collocare la sua disabilità. Se la posiziona fuori da sé e dalla sua mente, si percepirà come una persona con disabilità. Col tempo si renderà conto che le persone la tratteranno sempre meno da disabile. È un processo lento che certamente richiede tempo. Se invece la persona fa della disabilità una questione identitaria e posiziona la disabilità dentro di sé, allora verrà sempre riconosciuta come disabile perché è lei la prima ad aver interiorizzato questa etichetta e a vedersi così. Questo non vuol dire occultare la propria disabilità ma considerarla una parte delle proprie caratteristiche: io sono maschio, sono interista, sono un consulente, sono alto 1,87 e ho una disabilità. Io non sono la mia disabilità. È anche importante considerare che lavoratrici e lavoratori hanno una responsabilità anche verso le altre persone che stanno ancora cercando un lavoro. Se una persona con disabilità non si impegna sul posto di lavoro allora un pensiero di generalizzazione potrebbe influenzare la scelta dell’azienda nei successivi processi di reclutamento e selezione.
Quanta strada deve fare l’Italia per essere pronta ad assegnare un ruolo di leadership politica, aziendale, sociale a una persona con disabilità?
Non dobbiamo vedere le persone come soggetti da tutelare, incapaci di autodeterminazione ma come persone che possono autodeterminarsi e decidere il proprio percorso e magari, se dotate del giusto talento, capaci di prendere decisioni aziendali ricoprendo anche posizioni di responsabilità manageriale. La strada è lunga ma è una strada che devono fare in primo luogo le persone con disabilità. Quando a un certo punto della mia malattia io camminavo ancora, appoggiato a un badante andai in visita presso l’ufficio di un investor relation officer di una grande banca italiana per condividere i risultati di una ricerca sulle percezioni che i portatori di interesse avevano del suo istituto. La persona che dovevo incontrare per la prima volta mi stava aspettando fuori dalla saletta riunioni insieme all’assistente. Quando mi vide arrivare appoggiato al badante mi guardò attonito chiedendosi cosa stesse succedendo. Entrai nella saletta, salutai, accesi il computer e cominciai a parlare dei risultati della ricerca. Pochi minuti dopo la disabilità non era più sul tavolo. In sala 2 professionisti parlavano della percezione degli stakeholder. Se le persone con disabilità assumono questo atteggiamento più frequentemente e più solidamente, possono col tempo cominciare a essere considerate anche come candidate potenziali per ruoli manageriali. Questo processo di empowerment va senz’altro sostenuto e promosso.
Riccardo Taverna, chairman di WeGlad e consulente di Freebly, è uno dei leader italiani del cambiamento nella direzione della sostenibilità ambientale, economica e sociale. Speaker e moderatore di eventi ecosistemici sui temi dell’inclusività, ha concepito un modello originale di definizione e integrazione di bisogni individuali e organizzativi nel disability management.
Andrea Notarnicola
