Riccardo Taverna è un professionista nel settore della sostenibilità, dell’accessibilità e dell’inclusione nelle aziende; oltre ad essere, da più di un anno,  presidente di WeGlad, startup finalizzata a migliorare la mobilità delle persone con disabilità, attraverso la mappatura delle barriere architettoniche. Colpito dalla CIDP, una patologia neurologia degenerativa, e dal Parkinson, Taverna sottolinea: “io non sono una persona disabile, ma ho una disabilità”.
Ho avuto la possibilità e l’onore di confrontarmi con Taverna qualche giorno fa, rimanendo piacevolmente sorpresa dal fatto che la mia modesta idea sia uno dei punti fermi del suo pensiero; e cioè che non sia solo la società a dover fare lo sforzo di includere le persone con disabilità, ma sono anche le stesse persone disabili che devono porsi e agire, per favorire la loro inclusione. Per Taverna la disabilità  non coincide con la persona, ma è soltanto una sua caratteristica, come lo sono, per esempio, la simpatia o l’altezza.  È di questa concezione devono convincersi in primis le persone con disabilità

Mi ha particolarmente colpita  come  questo discorso acquisisca ancora una maggior importanza quando si parla  di inserimento lavorativo. Sostiene, infatti, Taverna che nella maggior parte dei casi le aziende assumono dipendenti con disabilità solo per essere conformi alla legge 482/68 sul collocamento obbligatorio, e quindi, per non pagare una sanzione. I lavoratori, pertanto, vengono inseriti nelle aziende “allo sbaraglio”, senza  la minima attenzione e formazione in base a quelle che sono le loro attitudini,  capacità e esigenze.

Taverna  è convinto che per un’adeguata assunzione di un lavoratore con disabilità sia necessario un impegno sia da parte dell’azienda, sia da parte dei dipendenti con disabilità. L’azienda deve attuare un percorso formativo – educativo finalizzato a promuovere al suo interno una cultura dell’inclusione condivisa dai vertici a tutti i dipendenti. Dal canto loro, i lavoratori con disabilità devono dare il massimo delle loro possibilità. Dare il massimo da parte loro significa mettere i superiori nelle condizione di trattarli come tutti gli altri dipendenti.

“In termini di produttività relativa non ci dovrebbe essere alcuna differenza tra lavoratori con disabilità e lavoratori normodotati – dichiara Taverna – tuttavia i lavoratori  con disabilità devono essere consapevoli che hanno una doppia responsabilità. La prima nei confronti dell’impresa che sceglie di assumerle perché ne riconosce un potenziale talento. Il lavoratore con disabilità, inoltre, deve essere consapevole che l’azienda in quel momento sta facendosi carico di un rischio. La seconda responsabilità è nei confronti delle altre persone con disabilità che non hanno ancora trovato un lavoro. Infatti se i lavoratori con disabilità approfittano del loro stato per lavorare meno, il danno di reputazione ricade su tutte le persone con disabilità”.

Il Diversity&Inclusion manager è la nuova figura aziendale che ha il ruolo di supervisionare l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. Il suo compito, inoltre è sviluppare dei soft skill che possono rispondere alle loro istanze.  Un buon Diversity manager si distingue per l’empatia, la capacità di ascolto e soprattutto, per l’essere in grado di far socializzare.