Olympe de Gouges, drammaturga francese del XVIII secolo, aveva ben ragione a scrivere La carta dei diritti della donna e della cittadina in aperto contrasto con La carta dei diritti dell’uomo e del cittadino del marchese de la Fayette e approvata dall’Assemblea nazionale francese nel 1789. La carta di La Fayette affermava che il fine delle istituzioni pubbliche è la “felicità di tutti”; Olympe aveva ragione a sostenere che “tutti” si riferiva a “i maschi”. E aveva talmente ragione che, dopo due anni di lotta per affermare i diritti delle donne, fu ghigliottinata perché “si era immischiata negli affari della Repubblica”. Mentre saliva sul patibolo faceva eco un passaggio del suo manifesto sui diritti delle donne: “Come la donna ha il diritto di salire sul patibolo, deve avere altresì il diritto di salire alle più alte cariche”.

UNA LUNGA STORIA DI DISCRIMINAZIONI

Sono passati più di 200 anni: le carte dei diritti non si scrivono più; le ghigliottine, fortunatamente, sono relegate nei musei; e le donne hanno conquistato molti diritti. Eppure l’ipocrisia rimane. La posizione della donna è progressivamente migliorata – è vero – anche se nel lungo percorso che porta ai giorni nostri fa rumore la storia di Lidia Poët, la prima avvocatessa italiana. Si laureò nel 1881 in Giurisprudenza a Torino con il massimo dei voti; non senza difficoltà si iscrisse all’albo degli Avvocati e dei procuratori legali. Ma c’è chi non guardava con favore a questa donna che si stava emancipando; infatti, il Procuratore Generale del Re fece ricorso alla Corte d’appello di Torino che annullò l’iscrizione. 

Le motivazioni della sentenza sono un manifesto al maschilismo: “L’avvocheria è un ufficio esercitabile soltanto da maschi e nel quale non devono immischiarsi le donne. Sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano e nelle quali, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene osservare. Disdicevole se si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri che non di rado la moda impone alle donne e ad acconciature non meno bizzarre. Le quali avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse tra essi, di divenirne uguali anziché le compagne, siccome la provvidenza le ha destinate”.

Le motivazioni della sentenza sono un’anticipazione del futuro: in esse, infatti, non si fa riferimento alle competenze, alla conoscenza della materia e alla capacità di Poët di svolgere correttamente la professione dell’avvocato. I giudici non sono entrati nel merito del talento della professionista, ma l’hanno giudicata perché donna.

UN DIVARIO DI 132 ANNI

E dopo che cosa è accaduto? Le donne hanno continuato la lotta per acquisire sempre più diritti e si è cominciato a misurare il fenomeno del cosiddetto “gender gap”. Dal 2017, il World economic forum (Wef) pubblica il Global gender gap index che misura il divario di genere in base alla partecipazione economica e politica, alla salute e al livello di istruzione in 146 Paesi. L’Islanda è lo Stato dove il gap è minore, seguito da Finlandia e Norvegia. L’Italia è 63esima preceduta da Uganda e Zambia: la nostra posizione è la sintesi del 40esimo posto per la partecipazione politica, del 59esimo per il livello di istruzione, del 108esimo per la salute e del 110imo per la partecipazione alla vita economica. Lo scenario è sconfortante, soprattutto perché il Wef ha calcolato che per raggiungere la piena parità a livello globale ci vorranno 132 anni. Ciò significa che la mobilità della classifica è bassa e soprattutto che, in prospettiva, l’impegno dei singoli Paesi per raggiungere la parità è scarso.

In questo contesto, in Italia le opportunità per le donne di partecipare alla vita economica sono castrate, nonostante abbiano un tasso di istruzione superiore rispetto agli uomini. Infatti, il 64% delle donne ha un diploma, contro il 58% degli uomini; e il 22% possiede una laurea contro il 16% degli uomini. Ma c’è di più. Secondo Il Kauffman index startup activity 2017, le donne sono più adatte a individuare i bisogni del mercato e a coglierne le opportunità. E secondo il Cs Gender 3000 del Credit Suisse Research Institute, maggiore è la percentuale di donne nel Top management e maggiori sono i ritorni per gli azionisti.

Per competere con gli uomini le donne hanno cercato di valorizzare la loro parte maschile rinunciando a quelle soft skill, come l’ascolto, l’empatia e la sensibilità per cogliere sfumature decisive. Oggi si cerca di affrontare il problema del gender gap con linee guida, certificazioni o leggi. È un approccio incompleto perché non valorizza il talento intrinseco di ogni donna. Il gender gap è una sfida che si vince nel lungo periodo e che necessariamente deve partire dalle scuole dove si insegna ai bambini a rispettare le bambine. Se ci vogliono veramente 132 anni per raggiungere la parità globale, dobbiamo cominciare ora!

Riccardo Taverna

I,WE 24 luglio 2023