Siamo circa a metà degli anni 60 del secolo scorso. Un consulente di comunicazione sta presentando una campagna al consiglio di amministrazione di una grande società. Terminata la presentazione, l’amministratore delegato della società committente conclude dicendo: “Bene, stasera sentirò cosa ne pensa mia moglie”.
“Scusi, che lavoro fa sua moglie?”, chiede il consulente.
“Ha il diploma magistrale, ma ha buon gusto”, risponde l’amministratore delegato.
Il lavoro del comunicatore è forse tra i più “bastardi” che ci sia. Chiunque, infatti, in forza della soggettività dell’estetica, si sente qualificato per giudicare il comunicatore. “È bello” oppure “E’ brutto”, “Mi piace” oppure “Non mi piace” sono le tipiche espressioni di chi si sente autorizzato ad esprimere un giudizio su un’operazione di comunicazione che, il più delle volte, è stata realizzata dopo attente ricerche di mercato, riunioni, focus group, area test, o alcune di queste. Nonostante l’impiego di questi strumenti, il comunicatore non gode di credibilità. Non che debba essere credibile senza alcuna riserva: il lavoro del comunicatore ha un solo metro di giudizio: “funziona” oppure “non funziona”. In altre parole: “la campagna contribuisce a far sì che l’impresa raggiunga i suoi obiettivi?”
Il comunicatore non è un professionista improvvisato. Quella del comunicatore è una professione fatta di solide competenze tecniche, molta esperienza e una sensibilità che può anche essere l’anticamera dell’intuizione. Una scintilla che illumina un percorso per un tempo infinitesimale che il comunicatore coglie grazie alla sua sensibilità esercitata in anni di pratica.
Un monito per i committenti. Non esiste alcuna operazione o strategia di comunicazione “vincente” sulla carta. Le campagne “geniali” sono tali solo quando l’impresa ha raggiunto i suoi obiettivi.
E l’episodio del comunicatore e dell’amministratore delegato? Il comunicatore ha rimesso l’incarico per essere richiamato dalla stessa azienda tre anni dopo.