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Consumiamo i nostri pasti senza avere la consapevolezza di come arrivano sulle nostre tavole. Pochi sanno, se non sono operatori del settore, che questi sono la punta dell’iceberg di un sistema economico tra i più vasti. Un sistema che vale circa 500 miliardi di euro all’anno e che impiega circa 4 milioni di occupati. È il settore agricolo esteso, che comprende il comparto agricolo, l’industria alimentare, la distribuzione e il canale Ho.Re.Ca. Stiamo parlando del primo settore economico del paese, purtroppo tra i primi tre settori per infortuni sul lavoro e tra i settori più emissivi. Il settore agricolo è infatti responsabile del 33% delle emissioni dei gas serra prodotti ogni anno nel mondo.

Un sistema così vasto e pervasivo non può trascurare i suoi impatti lungo tutta la filiera né dal punto di vista ambientale né dal punto di vista sociale. In sostanza, la sostenibilità del settore deve essere un punto di riferimento di eccellenza poichè il rapporto tra cibo, popolazione e risorse è strettissimo.

Il primo a sollevare il problema della crescita della popolazione mondiale e disponibilità di cibo fu Thomas Malthus. Nel 1798, nel suo “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società”, sosteneva che l’incremento demografico avrebbe spinto a coltivare terre sempre meno fertili, con conseguente penuria di generi di sussistenza, per giungere prima o poi ad un arresto dello sviluppo economico.

La tesi di Malthus fu confermata quasi 200 anni dopo dal Club di Roma. Costituito nel 1968 da Aurelio Peccei, imprenditore italiano, e Alexander King, il Club riuniva scienziati, politici, economisti e attivisti che si interrogavano sul futuro del mondo. Nel 1972, per dare una misura concreta alle loro riflessioni, commissionarono al Massachusetts Institute of Technology una ricerca per calcolare fino a quando il pianeta sarebbe stato in grado di rispondere al continuo e incessante prelievo di risorse dall’ambiente. Il rapporto intitolato “I limiti della crescita” indicava il 2050 come data limite… Era il 1972 e un manipolo di uomini si era reso conto di quanto la catastrofe fosse dietro l’angolo.

Fu così che si cominciò a parlare di sviluppo sostenibile, definito nel 1987 dalla commissione Brundtland delle Nazioni Unite, come “quello sviluppo che consente alle generazioni attuali di soddisfare i propri bisogni permettendo alle generazioni future di soddisfare i loro”. La sostenibilità è così un patto tra l’ambiente e le sue risorse da una parte, e le generazioni presenti e future dall’altra. Delineato il perimetro culturale l’attenzione si è spostata sul modo di implementare la sostenibilità nei processi aziendali.

È stato nel 2010, nel corso di un incontro organizzato dalle Nazioni Unite, che il tema è stato affrontato con la dovuta decisione. Agli amministratori delegati delle prime 700 imprese al mondo fu chiesto se il decennio che si apriva poteva essere quello in cui la sostenibilità sarebbe stata finalmente integrata nelle strategie aziendali. Risposero che ciò poteva accadere se i consumatori avessero dimostrato di essere sensibili alla sostenibilità dei prodotti, a quel punto gli elementi della sostenibilità sarebbero stati integrati nei loro processi.

Cinque anni dopo Larry Fink, fondatore di BlackRock, il più grande fondo comune (patrimonio gestito superiore agli otto trilioni di dollari) spedì una lettera agli amministratori delegati spiegando che in futuro avrebbe investito solo nelle aziende ad alto indice di sostenibilità. La ragione della lettera era semplice. Dovendo gestire le risorse dei suoi clienti per garantire loro una pensione all’altezza delle aspettative doveva, per coerenza, investire le loro risorse nel lungo periodo. E nel lungo periodo il rischio climatico era, ed è,  il rischio più pericoloso.

Quando si affronta la sostenibilità del settore agroalimentare, si affronta una complessità che coinvolge sia le scelte dei consumatori che l’intera filiera. Stili alimentari a basso impatto ambientale e standard di sicurezza sono solo i punti di partenza.

La sostenibilità alimentare coniuga la qualità dei prodotti e la sicurezza alimentare. E per un’impresa del settore essere sostenibile significa essere consapevole dell’impatto della sua attività su tutti gli stakeholder e assumersi la responsabilità di continuare a migliorare l’impatto sociale e ambientale. Per questo l’agricoltura sostenibile, al fine di garantire una reale qualità,  spesso aderisce volontariamente a certificazioni o protocolli elaborati dalle aziende produttrici.

Lo scenario è costituito da crisi ambientali e l’abbattersi di continui fenomeni meteorologici che spesso causano altrettanti fenomeni di dissesto idrogeologico rende sempre più evidente interdipendenza tra uomini e ambiente.

È in questo contesto che l’Unione Europea ha avviato, all’interno del Green Deal, il progetto Farm2Fork che consiste in un programma decennale che disegna la transizione verso un sistema agroalimentare sostenibile, sano ed equo. Gli obiettivi sono la garanzia della sicurezza dell’approvvigionamento alimentare, una filiera alimentare sostenibile, compresi i servizi accessori di ospitalità e ristorazione, la promozione del consumo di cibo sostenibile, la riduzione degli sprechi alimentari, e il contrasto alle frodi alimentari lungo la filiera. Forse, l’ultima possibilità di invertire la tendenza distruttiva dell’ambiente antropizzato.

La sonda Raffaello, che monitora la percezione che i consumatori hanno del settore alimentare, si colloca quindi in un ecosistema in transizione verso una piattaforma più sostenibile. I temi della filiera, “km zero” contro “km buono”, le scelte alimentari e il packaging, saranno, chi più chi meno, necessariamente oggetto di innovazione. La sostenibilità della filiera alimentare è l’unica strada da percorrere.